Film 2012
The Artist
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Lo spettatore ideale del film di Michel Hazanavicius sarebbe qualcuno che ignora totalmente quello che lo aspetta. Qualcuno convinto che dopo i primi minuti, il film, muto e in bianco e nero, si trasformi in una normale pellicola, parlata e a colori. Perché non è così. La storia si svolge in un’epoca in cui il modo di fare film è cambiato per sempre. Si parte da Hollywood, alla fine degli anni venti dove George Valentin (Jean Dujardin), star del muto, fatica a sopravvivere all’avvento del sonoro. Ad aiutarlo a non soccombere ci sono il fedele maggiordomo autista (James Cromwell), il suo ancor più fedele cagnolino e, soprattutto, l’adorazione di una stellina emergente, Peppy (Bérénice Bejo) che ha attraversato il cammino di Valentin prima di raggiungere la gloria nel mondo del sonoro. Non siamo di fronte a un esercizio di stile invischiato nell’autoreferenzialità o nello stile rétro. È un gran film che rende omaggio a un’era del cinema e a un’industria che, attraverso grandi sofferenze, hanno trasformato un intrattenimento di massa in una forma d’arte.
Anthony Lane, The New Yorker
 


13 assassini
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Il regista giapponese Miike Takashi è apprezzato da Tarantino e si spiega il perché. Il suo 13 assassini è indicativo della direzione presa dal cinema contemporaneo, di quella che molti credono debba essere la direzione da prendere perché il cinema conservi il suo ruolo così minacciato nel cuore delle masse di spettatori. Non viene dichiarato ma è ugualmente evidente. È la rivisitazione di un capolavoro, I sette samurai di Akira Kurosawa. Ma realizzata da chi, nato nel 1960, si è nutrito di western italiani e di film di Leone. L'identikit di Miike Takashi è lo stesso del regista di Pulp Fiction e di Kill Bill. Siamo a metà del secolo diciannovesimo, epoca di transizione nella storia giapponese tra medioevo e modernità, e la posta in gioco è quella di fermare un signore, un capoclan crudele e dissipato come Caligola, che per ammazzare il tempo taglia teste, braccia, gambe a tutti coloro che secondo lui non si comportano abbastanza da servi felici di dare la vita per il padrone. Sarebbe tempo di pace, e la casta dei guerrieri, i samurai, sarebbe a riposo e in disarmo. Ma è ora di recuperare lo spirito combattente, di ritrovare l'orgoglio di sacrificare la vita per una causa. Così Shinzaemon Shimada, già grande samurai, prende a reclutare un gruppo di irriducibili. Che non saranno sette bensì tredici. Compreso, filologicamente rispetto al modello, il pezzente vagabondo, sporco e buffone, che nel film di Kurosawa era interpretato da Toshiro Mifune. Buona metà film è occupata dalla battaglia. Una carneficina inaudita nella quale i tredici eroi affrontano un esercito di duecento uomini. Con alla fine solo due sopravvissuti tra i buoni. Che hanno vinto, del tutto inverosimilmente: del resto le botte che si sono dati somigliano più a quelle di Piedone che non del Gladiatore. Il parossismo della messa in scena va nella direzione contraria alla classicità. L'eccesso di sangue e la piega parodistica hanno la meglio su tutto. E la morale finale, un po' come per lo straniero senza nome di Per un pugno di dollari, è che non c'è nobiltà possibile né onore da tenere alto nell'uso delle armi, da qualsiasi parte la si veda.
La Repubblica


Il paese delle spose infelici
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A Martina Franca, il giovane Francesco detto Veleno è un ragazzino di buoan famiglia che vive scrutando giorno dopo giorno i ragazzi dei quartieri popolari nei loro allenamenti a pallone e nei giochi all'aperto. Solo quando Zazà, il più grande e carismatico del gruppo, decide di testarne le capacità come portiere, Veleno comincia ad esser accettato e a passare i suoipomeriggi in compagnia di altri ragazzi. Durante uno di questi, assiste al salvataggio di una giovane vestita da sposta pronta a saltare dalla cima della chiesa del paese. La visone di quella ragazzia biodna dai lineamenti dolci che si getta nel vuoto rimane impressa nei ricordi di Veleno e di Zazà, che da quel giorno tentano di avvicinarsi a lei e di scoprire il segreto della sua infelicità.
Corriere della Sera
 

L'industriale
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Il quarantenne Nicola (Pierfrancesco Favino) è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento di una Torino nebbiosa e notturna, immersa nella grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, tenace. Ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli. Sua moglie Laura (Carolina Crescentini, che aveva già lavorato con Montaldo in I demoni di San Pietroburgo) è sempre più lontana, ma Nicola non fa nulla per colmare la distanza che ormai li separa. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Ma invece di aprirsi con Laura comincia a sospettare di lei e a seguirla di nascosto. Tutto precipita. Nicola annaspa e tira fuori il peggio di sé. Poi tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale. Ma l’uomo ha più di un segreto da nascondere e il ritratto sociale prende sfumature dostoevskijane.

Pollo alle prugne
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Per rimettersi dall’indigestione provocata dai fumetti passati sul grande schermo, si può prendere una porzione di questo Pollo alle prugne. Forse il piatto non è riuscitissimo, ma almeno è cucinato con amore. Portando sullo schermo i personaggi di Persepolis Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud avevano piazzato la barra molto in alto: le sagome autobiografiche uscite dalla carta sono diventati personaggi in carne e ossa. Paradossalmente in Pollo alle prugne si fa ricorso ad attori veri, ma la struttura e le situazioni del film rimangono un po’ piatte, proprio come figure disegnate sulla carta. Le tribolazioni del musicista Nasser Ali (Mathieu Amalric), che perde il suo violino dopo una lite con la moglie (Maria de Medeiros), sono ambientate nell’Iran della monarchia che sembra sempre artificiale, un artificiosità che finisce per contagiare le interpretazioni degli attori. Si riconoscono ovunque gli ingredienti della vita, il comico e il tragico, la bellezza e l’oppressione. Ma è la vita stessa che fa fatica a farsi sentire. È un po’ come leggere la ricetta del pollo alle prugne senza poter assaporare il piatto finito.-Thomas Sotinel, Le Monde


Young Adult
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Il regista Jason Reitman e la sceneggiatrice Diablo Cody danno un seguito alla loro ottimistica e brillante commedia adolescenziale, Juno, con una variazione dark sul tema del ritorno a casa come viaggio nella memoria. Charlize Theron è commovente nel ruolo di Mavis, una donna in crisi che decide di tornare nella cittadina in cui è cresciuta, in Minnesota, per capire come lei, reginetta del liceo, sia finita in depressione. Theron è eccellente, ma la vera star del film è il comico Patton Oswalt nei panni di un compagno di scuola che Mavis ignorava e che ora diventa il suo nuovo confidente. La morale del film è che si può sempre tornare a casa, ma che sarebbe saggio non farlo. -Philip French, The Observer



The Way Back
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1940. Nella Polonia occupata dalle truppe sovietiche, il soldato Janusz viene denunciato come spia dalla moglie sottoposta a tortura. Spedito in un gulag in Siberia. Qui, insieme ll'attore Khabarov, all'americano Mr.Smith, e al criminale comune Valka inizia a pensare a un piano di fuga che riuscirà ad attuare insieme ad altri detenuti. Ciò che li attende fuori dal campo di prigionia è l'inverno siberiano. La loro prima meta è costituita dal lago Baikal e dai confini con la Mongolia. Il loro viaggio è però destinato ad essere molto più lungo e, conseguentemente, molto più tormentato.
Sono trascorsi nove anni da quando un film di Peter Weir è comparso sui nostri schermi ed ora possiamo finalmente vedere l'ultima sua fatica che risale al 2010. Non si tratta di una delle sue opere più originali ma si rivela comunque interessante. A partire dalle sue origini, il romanzo "The Long Walk" di Slavomir Rawicz, il cui autore affermò di essersi ispirato a fatti realmente accadutigli, salvo poi essere smentito da documentazioni emerse negli anni recenti. Weir quindi ha ribaltato la dimensione del suo The Truman Show. Là il suo protagonista viveva come realtà ciò che era finzione. Qui ci si ispira a una finzione che ha voluto proporsi come realtà per fare un film che rispetta i canoni ...della finzione. Con una differenza di fondo però. I gulag staliniani sono stati una aberrante fatto reale e hanno ispirato tentativi di fuga da un inferno fuori dal quale ce n'era un altro ad attendere gli evasi.
Deve essere questo che ha attratto Weir: raccontare le vicende di un gruppo di uomini che trovano nella Natura, come afferma uno dei comandanti del gulag, il loro vero carnefice. Il suo cinema è spesso andato alla ricerca di storie in cui i protagonisti lottavano contro i pregiudizi e, in fondo, anche contro se stessi per raggiungere la meta che si erano prefissi. Che fossero professori (L'attimo fuggente) o al comando di una nave (Master & Commander) poco importava. Qui si misura con un gruppo di individui che restano tali anche quando sono costretti dagli eventi a diventare un gruppo. Ognuno si porta dietro il bagaglio delle proprie diffidenze nei confronti della diversità (di nazionalità, d'età, di vissuto personale) altrui. Ma tutti hanno una meta che inizialmente risulta essere comune. Se Colin Farrell è, come al solito, a suo agio nei laceri panni del cupo criminale Valka, è un sempre superlativo Ed Harris ad offrire una prova che lascia ancora una volta il segno nei panni del volutamente anonimo Mr. Smith. Su tutto il cast finisce però con il dominare l'ambiente naturale che la fotografia di Russell Boyd esalta in particolare quando gli mette a disposizione l'intero schermo riducendo gli esseri umani a poco più che nullità. Nullità che, a tratti, rischiano di perdere la propria umanità per poi ritrovarla, nonostante tutto, magari disputando, ridotti alla fame, su una ricetta in cui mettere più o meno sale.

Another Earth
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Rodha (Brit Marling), promettente studentessa dell’Mit, ha causato la morte di alcune persone in un incidente stradale e cerca di farsi perdonare. Così va a lavorare per il sopravvissuto dell’incidente (William Mapother), senza dirgli chi è e cosa ha fatto. La storia non è particolarmente credibile, ma nel serio, ambizioso e a tratti ridicolo film di Mike Cahill, è il mondo stesso a non essere quello che conosciamo. Non da quando un altro pianeta, alternativo alla Terra, apparentemente abitato dalle stesse persone, è comparso in cielo. La scienza e la fantascienza non c’entrano niente: chiunque si aspetta di sentir parlare di continuum spaziotemporale o universi paralleli rimarrà molto deluso. Piuttosto Anoth­er Earth è pervaso dall’ossessione della seconda chance e dalle possibili strade che avremmo potuto o dovuto percorrere. Chiunque riuscisse a dare una spiegazione per l’ultima inquadratura avrebbe diritto al rimborso del biglietto.-Anthony Lane, The New Yorker

Argo
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Argo è un film di fantascienza, uno dei tanti film che parlano di mondi lontani in cui degli oppressori intergalattici vengono sfidati da un manipolo di eroi. Uno dei tanti che tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta hanno cercato di sfruttare la scia di Star Wars. Argo non è mai stato realizzato, almeno fino a oggi. Peccato – o forse dovremmo dire per fortuna – che non è più un film di fantascienza, ma un thriller politico che evoca atmosfere e maniere di quei film degli anni settanta in cui gli agenti della Cia erano ancora bravi ragazzi e che racconta la storia scritta sui libri da un’angolazione insolita.
La storia di cui parliamo è la crisi dei 52 ostaggi dell’ambasciata statunitense a Teheran, che per più di un anno dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981 rimasero prigionieri della neonata repubblica islamica dell’Iran, il nascente regime degli ayatollah. Il punto di vista è quello di un agente della Cia, uno specialista, esperto nel far fuoriuscire clandestinamente le persone da paesi in cui è in atto una rivoluzione. Il suo nome, Tony Mendez, lo troviamo nei libri di storia solo dal 1997, anno in cui l’operazione segreta di cui fu protagonista fu resa pubblica dall’amministrazione Clinton.
Argo comincia con una bellissima sequenza che mescola fumetti e materiale d’epoca raccontando il crollo delle relazioni tra Stati Uniti e Iran, che culminano nel momento in cui Washington accoglie lo scià Reza Pahlavi in fuga dal suo paese. Gli studenti assalgono l’ambasciata statunitense di Teheran e il tutto ci è raccontato con un’altra notevole sequenza in cui le riprese del film sono sapientemente mescolate con materiale d’archivio. Sei impiegati dell’ambasciata riescono a uscire di nascosto e a trovare rifugio nella residenza dell’ambasciatore canadese in Iran. Ben Affleck, produttore e regista del film, è anche l’interprete di Tony Mendez, a cui viene affidato l’incarico di far uscire segretamente dall’Iran i sei funzionari sfuggiti alla cattura. Vedendo una sequenza di Anno 2670 ultimo atto, un sequel del Pianeta delle scimmie, Mendez ha l’illuminazione. Creare una finta produzione cinematografica canadese alla ricerca di location esotiche in Iran e tirare fuori i sei fuggitivi facendoli passare per componenti della produzione arrivati nel paese pochi giorni prima.
E qui entra in gioco la fantascienza. Per creare questa finzione è necessario mettere in piedi una finta produzione che passi per vera. Mendez quindi va a Hollywood e coinvolge John Chambers, mago del make-up, vincitore del premio Oscar per Il pianeta delle scimmie, interpretato da un divertito e divertente John Goodman. A loro si unisce un produttore Lester Siegel, vecchia volpe di Hollywood, interpretato da un ancor più divertito e divertente Alan Arkin. La parte hollywoodiana è quasi comica, si ride parecchio e ci viene suggerito che gli ayatollah non sono più agguerriti dei funzionari del sindacato scrittori della Mecca del cinema.
Della trama sappiamo abbastanza. Solo un’ultima nota sulla sequenza in aeroporto, la sequenza di maggior tensione di tutto il film. Il climax è costruito alla perfezione anche facendo affidamento sull’ansia che coglie molti di noi quando chiamano l’imbarco del nostro volo e cominciamo a pensare con insistenza al momento in cui scenderemo dall’aereo, a viaggio terminato.
Questo è un film molto ben fatto. Sorprende la maturità raggiunta da Ben Affleck, soprattutto come regista e produttore. Nessuno l’avrebbe mai detto, credo, ai tempi di Armageddon o di Pearl Harbor. E invece ora non ci si stupisce di vederlo accanto a George Clooney nella produzione di un film che è un tributo a un’epoca in cui i film di Hollywood erano senz’altro migliori di quelli che si vedono oggi in circolazione.
Quello che scrive Richard Brody sul New Yorker mi sembra il miglior modo per chiudere: “Argo è un omaggio a un vecchio modo di fare cinema, che fu scacciato da Hollywood dai grandi campioni d’incasso per giovanissimi come Star Wars. Un tributo non a Hollywood in quanto tale, ma a quei classici drammi per adulti che Hollywood non produce più. Forse sono moneta fuori corso perché non rispecchiano più il mondo com’è oggi. Ma Affleck si attacca alla ferrea solidità di un nostalgico tributo a un settore e a un mondo di una volta” 
Vol Special
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Ogni anno in Svizzera migliaia di uomini e donne sono incarcerati senza processo, per la sola ragione di essere irregolari e non avere un permesso di soggiorno. In attesa dell’espulsione rimangono in carcere per mesi. Alcuni di loro vivono in Svizzera da molto tempo, h
anno una famiglia, un lavoro, pagano le tasse e mandano i figli a scuola. Ma le loro vite vengono stravolte dal giorno in cui la polizia decide di chiuderli in centri di detenzione come quello di Frambois, vicino a Ginevra. Da quel momento comincia un lungo percorso amministrativo per costringerli ad accettare il rimpatrio. Vittime di un implacabile sistema legale, umiliati e disperati, quelli che si rifiutano di partire volontariamente sono costretti alla soluzione estrema: imbarcarsi su un “volo speciale”, e tornare in un paese che da anni non è più il loro.

We are legion
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Anonymous è un collettivo di hacker e attivisti, noto per gli attacchi ai siti web di grandi gruppi come Scientology, PayPal, Sony. Gli hacktivist che fanno parte del gruppo rifiutano le gerarchie, si battono per la libertà d’espressione e contro il potere economico delle multinazionali, e le loro azioni hanno ridefinito il concetto di disobbedienza civile su internet. Grazie alle testimonianze di attivisti ed esperti, il documentario ricostruisce la storia del gruppo dalle origini, gli hacker di Cult of the dead cow e i siti come 4chan, fino alla maturazione politica e al ruolo assunto nella primavera araba e nel movimento Occupy. Nato come forum poco più che goliardico, Anonymous è diventato un movimento globale capace di sfuggire a ogni strumentalizzazione.